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Pervietà del forame ovale, prevenzione secondaria degli eventi ischemici: meglio la chiusura percutanea o gli antiaggreganti?

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Norris, George William, Landis, Henry R. M. Krumbhaar, E. B./Wikimedia commons

La gestione dei pazienti con pervietà del forame ovale è materia estremamente controversa. Non solo per la scelta di iniziare un trattamento antiaggregante in prevenzione primaria, ma anche nel momento di decidere l’opportunità di un intervento chirurgico o transcatetere.

In questo senso le più recenti linee guida della Società Europea di Cardiologica, che datano ormai il lontano 2010, raccomandano l’intervento in classe I per i pazienti con shunt significativo (segni di sovraccarico di volume del ventricolo destro) e resistenze vascolari polmonari <5 WU, indipendentemente dai sintomi. Sempre in classe I viene raccomandata la chiusura con device, come metodo di scelta, in caso di difetto del setto interatriale di tipo ostium secundum. In classe di raccomandazione IIa si indica che in tutti i pazienti con difetto del setto interatriale e sospetta embolia paradossa, indipendentemente dalle dimensioni del difetto stesso, l’intervento di chiusura andrebbe considerato.

Questo “considerato” lascia però spazio all’incertezza. Così, nei pazienti con ictus criptogenetico si pone spesso il dilemma tra portare il paziente all’intervento o proteggerlo con la sola terapia medica.

Per cercare di fare chiarezza in questo campo, un recente lavoro, pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine, ha confrontato l’efficacia nella prevenzione secondaria degli eventi embolici della sola terapia medica o della chiusura transcatetere in pazienti con forame ovale pervio, fornendo una metanalisi di quattro studi randomizzati.

I risultati hanno evidenziato come la chiusura del forame ha ridotto il rischio assoluto di ictus ricorrente del 3,2% rispetto alla terapia medica nei complessivi 2892 pazienti valutati.

Le due strategie di trattamento hanno dimostrato inoltre tassi simili negli attacchi ischemici transitori e negli episodi di sanguinamento maggiore.

È però interessante osservare come nei pazienti che venivano sottoposti alla chiusura del forame ovale si registravano con più frequenza episodi di fibrillazione atriale di nuova insorgenza, anche se gli autori sottolineano una marcata eterogeneità tra gli studi clinici considerati nell’analisi.

Alla luce di questi risultati la chiusura transcatetere del forame ovale sembra avere sostanziali vantaggi in termini di prevenzione delle recidive emboliche (leggi articolo precedente su questo tema). Va però considerato che i tassi degli eventi ischemici registrati è stato molto basso, in entrambi i gruppi studiati. Considerando quindi la possibile induzione di episodi di fibrillazione atriale nei pazienti sottoposti ad intervento, la scelta tra i due approcci terapeutici si rimette in equilibrio e va attentamente soppesata nel singolo paziente.

 

Annals of Internal Medicine Logo

 

 

Rahman Shah, et. al. Device Closure Versus Medical Therapy Alone for Patent Foramen Ovale in Patients With Cryptogenic Stroke: A Systematic Review and Meta-analysis. Ann Intern Med. 2018;168(5):335-342.

 

 

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