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Alzheimer: un ormone prodotto dall’esercizio fisico può rallentare la malattia

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Potrebbe esserci una relazione tra l’ormone proteico indotto dall’esercizio, l’irisina, e la progressione della malattia di Alzheimer. A suggerire questa relazione è un recente studio svolto su un modello murrino, recentemente pubblicato online su Nature Medicine.

Esercizio fisico e capacità cognitive

L’esercizio è noto per promuovere effetti benefici sulla salute a livello di numerosi sistemi, incluso il cervello. Ricerche precedenti avevano indicato come l’esercizio fisico può migliorare le capacità cognitive e potrebbe anche rallentare la progressione dei disturbi neurodegenerativi legati alla malattia di Alzheimer.

Durante l’attività fisica, una proteina messaggera chiamata irisina può essere rilasciata dal tessuto muscolare per entrare in circolo ed esercitare il suo effetto su differenti bersagli.

Gli effetti dell’irisina: lo studio

Fernanda De Felice e colleghi hanno scoperto che l’irisina ha facilitato gli effetti pro-cognitivi dell’esercizio nei modelli murini del morbo di Alzheimer. Gli autori hanno scoperto che l’irisina, così come il suo precursore proteico FNDC5, erano espressi a livelli più bassi nel cervello umano in presenza di una malattia di Alzheimer, rispetto ai controlli sani. Questa scoperta è stata confermata anche nei modelli della malattia in roditori.

Gli autori hanno indotto nei topi un deficit di apprendimento e di memoria riducendo l’espressione genetica di FNDC5 e di irisina. Al contrario, il ripristino della loro espressione ha invertito questi effetti. Hanno inoltre osservato che quando il signaling di FNDC5/irisina era bloccato all’interno del cervello o perifericamente, gli effetti pro-cognitivi dell’esercizio fisico sono stati persi.

Gli effetti dell’irisina sul cervello

Saranno necessari ulteriori studi per capire esattamente come l’irisina entra e interagisce con il cervello, e per valutare se la proteina ha un effetto analogo a livello pro-cognitivo negli esseri umani. Tuttavia, gli autori suggeriscono che questi risultati potrebbero aprire la strada a nuove strategie terapeutiche per mitigare il declino cognitivo nei pazienti con malattia di Alzheimer.

 

 

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