Il rischio tromboembolico in pazienti con fibrillazione atriale che stanno per essere sottoposti a cardioversione presenta una variabilità nel tempo. A precisarlo è un recente studio, pubblicato sullo European Heart Journal.
I ricercatori, tutti della McMaster University, di Hamilton, in Canada, sono partiti dal presupposto che non è noto se la procedura di cardioversione dell’aritmia possa di per sé essere causa di eventi tromboembolici, pur sapendo che questi sono una possibile complicanza della procedura.
Lo studio ACTIVE
Per valutare questa ipotesi sono stati utilizzati i dati dello studio ACTIVE (Atrial Fibrillation Clopidogrel Trial with Irbesartan for Prevention of Vascular Events). Questo studio ha incluso pazienti con fibrillazione atriale sottoposti a cardioversione e prevedeva tre bracci di trattamento: singola terapia antiaggregante, doppia terapia antiaggregante o anticoagulante orale.
In questa nuova analisi, sono stati considerati solo i pazienti randomizzati ad un trattamento antiaggregante singolo o doppio (aspirina o aspirina più clopidogrel) permettendo così di valutare il rischio tromboembolico, prima e dopo la cardioversione, senza un importante fattore confondente come la terapia anticoagulante.
Cardioversione e rischio tromboembolico
L’endpoint principale dello studio era il rischio mensile di un evento tromboembolico quale ictus ischemico, embolia sistemica o TIA. Sono stati inclusi complessivamente 962 pazienti. Cardioversione elettrica e farmacologica sono state eseguite in modo bilanciato tra i pazienti.
I risultati hanno evidenziato che nei 30 giorni precedenti la cardioversione si sono verificati eventi tromboembolici con una frequenza di 0,47 eventi per 30 giorni/paziente. Entro i 30 giorni successivi alla cardioversione il tasso è stato di 0,96 eventi per 30 giorni/paziente. Nel complesso è stato evidenziato un aumento di eventi tromboembolici in questi due periodi, rispetto al periodo esterno a questo intervallo di 60 giorni.
Il rapporto di rischio per gli eventi tromboembolici nei 30 giorni precedenti la cardioversione è risultato quindi 2.6, mentre nei 30 giorni seguenti era 5,6.
Sul piano clinico, il ricovero per insufficienza cardiaca è stato più frequente nel periodo peri-cardioversione (Hazard ratio 11,5).
Il deterioramento clinico
Gli autori osservano come l’aumento del rischio tromboembolico nei 30 giorni prima e dopo la procedura di cardioversione seguiva uno schema temporale simile a quello del ricovero per scompenso cardiaco.
La loro interpretazione è quindi che l’aumento degli eventi tromboembolici potrebbe essere almeno in parte correlato al deterioramento clinico complessivo dei pazienti che richiedono una cardioversione.
Franco Folino