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Gli omega-3 non proteggono dalle malattie cardiovascolari i soggetti a rischio

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Due nuovi studi presentati al recente congresso dell’American Heart Association hanno assestato un duro colpo all’utilizzo degli omega-3 nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Entrambi non hanno evidenziato alcun beneficio indotto da questo tipo di trattamento.

In passato atri studi avevano valutato gli effetti dell’assunzione di integratori a base di acido eicosapentaenoico più acido docosaesaenoico, più comunemente chiamati omega-3, sull’insorgenza di malattie cardiovascolari. I loro effetti nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari non sono stati valutati nella popolazione generale. Gli studi si sono concentrati sul loro utilizzo in prevenzione secondaria, in pazienti con diabete mellito, malattia coronarica o con un alto rischio cardiovascolare.

Lo studio STRENGHT

Lo scopo dello studio STRENGHT (Cardiovascular Outcomes with Omega-3 Carboxylic Acids (Epanova) in Patients with High Vascular Risk and Atherogenic Dyslipidemia) è stato quello di valutare gli effetti di un trattamento con una formulazione di EPA e DHA (omega-3 CA) in ambito clinico in pazienti ad alto rischio cardiovascolare.

Lo studio, di fase III, randomizzato e controllato con placebo, ha incluso oltre 13.000 soggetti seguiti a livello internazionale in 686 centri di 22 paesi. Sono stati arruolati nella sperimentazione pazienti trattati con statine o ad alto rischio cardiovascolare con trigliceridi compresi tra 180-500 mg/dL, HDL inferiore a 42 mg/dL per gli uomini, o inferiore a 47 mg/dL nelle donne. Il follow-up mediano è durato 42 mesi.

Gli endpoint primari erano la morte cardiovascolare, l’infarto miocardico l’ictus, la rivascolarizzazione coronarica o l’ospedalizzazione per angina instabile.

Lo studio è stato interrotto precocemente per chiara evidenza del risultato.

Dal trial emerge che la somministrazione giornaliera di 4 g di acido carbossilico omega-3 non ha ridotto l’incidenza di eventi cardiovascolari avversi maggiori, rispetto al placebo, nonostante un aumento del 269% dei livelli plasmatici di EPA. A margine, la ricerca ha evidenziato un aumento del rischio di fibrillazione atriale con l’assunzione di Omega-3 CA (HR = 1,69, CI 1,29-2,21).

Lo studio OMEMI

Lo studio OMEMI (The Omega-3 fatty acids in Elderly with Myocardial Infarction trial) ha cercato di valutare l’effetto clinico dell’utilizzo di n-3PUFA  in pazienti anziani con un recente infarto del miocardio.

l’ipotesi del trial, multicentrico, controllato con placebo, in doppio cieco, era quella che la quotidiana aggiunta di 1,8 g n-3 PUFA allo standard di cura, in prevenzione secondaria, nei pazienti anziani sopravvissuti a un infarto miocardico riducesse il rischio di eventi cardiovascolari successivi, durante un follow-up di due anni. Sono stati arruolati oltre 1.000 pazienti.

L’outcome primario di efficacia era un endpoint composito di infarto miocardico non fatale, rivascolarizzazione non programmata, ictus, morte per qualsiasi causa o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca nuova o peggiorata. L’outcome primario di sicurezza era il sanguinamento maggiore (Bleeding Academic Research Consortium grade >2). Endpoint secondario era la nuova insorgenza di fibrillazione atriale.

I risultati hanno evidenziato come nei pazienti anziani trattati 1,8 g di n-3 PUFA non si sia ridotta l’incidenza di eventi cardiovascolari o la mortalità per tutte le cause rispetto a quelli randomizzati al placebo, dopo due anni di follow-up.

L’incidenza di fibrillazione atriale è risultata maggiore nel gruppo trattato con n-3 PUFA (7.2% versus 4%), ma senza raggiungere, anche se di poco, la significatività statistica (p=0.06).

Quest’ultimo trial è stato contestualmente pubblicato sulla rivista Circulation.

Questi due studi hanno il merito non solo di aver chiarito i mancati effetti degli omega-3 nelle prevenzione delle malattie cardiovascolare, ma anche quello di aver messo in risalto il possibile rischio di sviluppare una fibrillazione atriale utilizzando questi integratori. Gli hazard ratio evidenziati nelle due sperimentazioni sono molto forti (STRENGHT, HR 1,69; OMEMI, HR 1,84, p=0.06) e, anche se nello studio OMEMI non è stata raggiunta la significatività statistica, rappresentano comunque un forte segnale d’allarme.

Se altri studi saranno necessari per ben definire se ancora esistono soggetti che possono beneficiare di un trattamento con omega-3, certa sono ora indispensabili trial appositamente disegnati per valutarne il rischio proaritmico nei confronti della fibrillazione atriale.

 

Franco Folino

 

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