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Carcinoma della prostata: un nuovo studio a favore di un trattamento conservativo

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Cancer Research UK

È ormai da decenni che si dibatte sulle modalità di approccio al carcinoma della prostata. Se sia necessario un intervento aggressivo, oppure sia sufficiente un monitoraggio conservativo. I risultati di un nuovo studio, pubblicati recentemente sul New England Journal of Medicine, potrebbero aggiungere evidenze a favore di quest’ultima condotta.

Tra i molti studi pubblicati sull’argomento questa nuova ricerca ha il pregio di aver valutato un gran numero di pazienti, oltre 1.600, per un periodo di follow-up particolarmente prolungato, compreso tra gli 11 e i 21 anni.

Strategie di cura per il carcinoma prostatico

Dal lontano momento in cui si è iniziato a proporre un trattamento conservativo per il carcinoma della prostata, considerando la scarsa aggressività del tumore, sono passati molti anni. Da allora questa strategia di intervento, inizialmente considerata troppo rischiosa, è stata sempre più accettata, grazie anche all’evoluzione degli strumenti diagnostici.

In particolare, l’utilizzo della risonanza magnetica multiparametrica, e l’esecuzione di biopsie mirate, hanno consentito di ottenere una stratificazione del rischio molto precisa, permettendo una sorveglianza della malattia particolarmente accurata.

Nonostante questo però, considerando l’inevitabile variabilità clinica della malattia, il dibattito sulle migliori strategie per la cura del carcinoma prostatico rimane acceso. Soprattutto perché questo tipo di tumore interessa una grossa fetta della popolazione maschile.

Secondo i dati AIOM/Registri tumori, nel 2020 sono stati registrati in Italia circa 36.000 nuovi casi di neoplasia prostatica. Questa malattia rappresenta il tumore più frequente nell’uomo (19% di tutti i tumori maschili) e nel 2021 sono stati stimati 7.200 decessi attribuibili al cancro della prostata. La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è del 91%.

Il progetto ProtecT

In questo nuovo studio, coordinato dall’Università di Oxford, i ricercatori hanno confrontato i risultati ottenibili nei pazienti con carcinoma della prostata seguendo tre strategie: un monitoraggio attivo, la prostatectomia e la radioterapia.

Questa ricerca è parte del progetto ProtecT (Prostate Testing for Cancer and Treatment), che tra il 1999 e il 2009 ha arruolato nel Regno Unito un totale di 82.429 uomini di età compresa tra 50 e 69. Inizialmente lo scopo è stato quello di valutare l’efficacia dei trattamenti convenzionali per il cancro della prostata localizzato, rilevato in base al dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA).

L’endpoint principale del nuovo studio era la morte per cancro alla prostata. Tra gli endpoint secondari erano inclusi la morte per qualsiasi causa e lo sviluppo di metastasi.

I pazienti inclusi in questo studio sono stati classificati come a basso rischio nel 77% dei casi, ma è stata eseguita una stratificazione più accurata, utilizzando diversi calcolatori, tra cui il Cancer of the Prostate Risk Assessment (CAPRA) e i sistemi di punteggio di D’Amico e del Cambridge Prognostic Group (CPG).

Secondo i criteri di D’Amico, il 24,1% dei pazienti avevano una malattia intermedia e il 9,6% avevano una malattia ad alto rischio (26,4% e 2,5% secondo CAPRA e 20.5% e 8.8% secondo la classificazione CPG).

Nessuna differenza di mortalità

Dopo un follow-up mediano di 15 anni i decessi registrati complessivamente sono stati 45 (2,7%), equamente distribuiti nei tre gruppi di trattamento (3,1% nel gruppo di monitoraggio attivo, 2,2% nel gruppo prostatectomia e 2,9% nel gruppo radioterapia). In sostanza, quindi, non è stata evidenziata alcuna differenza nella mortalità per questi tre approcci alla malattia. La sopravvivenza per il cancro alla prostata è stata circa il 97%, indipendentemente dalla strategia utilizzata.

Riguardo gli endpoint secondari, la morte per qualsiasi causa si è verificata nel 21,7% dei pazienti, anch’essa in modo equamente distribuito nei tre gruppi di studio. Le metastasi si sono sviluppate nel 9,4% dei pazienti inclusi nel gruppo di monitoraggio attivo, nel 4,7% di quelli che erano stati sottoposti a prostatectomia e nel 5% di quelli sottoposti a radioterapia.

Considerando i livelli di PSA registrati nei pazienti, si è visto che questo parametro non era correlato con la mortalità registrata nei tre gruppi, così come non lo erano la stadiazione del tumore o il punteggio di stratificazione del rischio.

Uno studio datato?

Anche se i pazienti inclusi in questo studio erano stati classificati in maggioranza come a basso rischio e avevano livelli di PSA piuttosto bassi (mediamente 4,6 ng/mL), i risultati di questo nuovo studio sono certamente interessanti.

Forse, la pecca maggiore della sperimentazione sta proprio nella sua età. Nato alla fine degli anni ’90 è iniziato in un periodo in cui l’approccio al malato con neoplasia prostatica era molto differente da quello odierno. Merito dell’esperienza clinica e dell’affinamento degli strumenti diagnostici oggi a disposizione. Così, la tendenza ad un approccio conservativo in pazienti con le caratteristiche cliniche simili a quelle dei pazienti arruolati è oggi già in gran parte utilizzato.

 

Franco Folino

 

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