Molti pazienti affetti da quello che viene ormai definito come ‘COVID lungo’ a distanza di mesi dall’inizio della malattia presentano ancora una sindrome da stanchezza cronica e altri problemi respiratori. Lo rileva un recente studio, pubblicato sulla rivista JACC: Heart Failure, che è il primo del suo genere a identificare una correlazione tra COVID lungo e la sindrome da stanchezza cronica.
La sindrome da stanchezza cronica
La sindrome da stanchezza cronica è una condizione medica che spesso può verificarsi dopo un’infezione virale e causare febbre, dolore, stanchezza e depressione prolungati. Colpisce in prevalenza gli adulti giovani e di mezza età e in particolare le donne.
La causa di questa sindrome è ancora sconosciuta, ma viene proposta una predisposizione individuale a svilupparla, che viene innescata da alcuni fattori scatenanti.
Tra questi vi sono problemi del sistema immunitario, squilibri ormonali, in particolare legati alla funzione dell’ipotalamo, dell’ipofisi e del surrene, e i traumi fisici ed emotivi.
Il fattore scatenante più importante finora rilevato sembra però essere una precedente infezione virale. I virus che fino ad oggi sono stati identificati come possibili responsabili di questa sindrome sono il virus Epstein-Barr e il virus dell’herpes umano 6.
Molti pazienti con COVID-19, alcuni dei quali non sono mai stati ricoverati in ospedale, hanno riportato sintomi persistenti dopo essersi ripresi dalla malattia iniziale. Questi pazienti hanno quello che tecnicamente viene chiamato PASC (Post-Acute Sequelae of SARS-CoV-2), ma è più comunemente indicato come COVID lungo.
Grave affaticamento, difficoltà cognitive, sonno non ristoratore e dolori muscolari sono stati tutti considerati sintomi principali per i pazienti PASC. Un quadro clinico molto simile a quello che i ricercatori hanno visto dopo l’epidemia di SARS-CoV-1 del 2005, dove il 27% dei pazienti ha soddisfatto i criteri per l’encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS) a distanza di quattro anni dalla malattia principale.
Una mancanza di respiro inspiegabile
In questo studio, i ricercatori hanno esaminato 41 pazienti (23 donne, 18 uomini) di età compresa tra 23 e 69 anni. I pazienti sono stati indirizzati a questo studio prospettico da pneumologi o cardiologi e tutti avevano test di funzionalità polmonare, radiografie del torace, scansioni TC del torace ed ecocardiogrammi normali. Ai pazienti era stata precedentemente diagnosticata un’infezione acuta da COVID-19 per un intervallo da tre a 15 mesi prima di sottoporsi al test da sforzo cardiopolmonare (CPET) e continuavano a soffrire di mancanza di respiro inspiegabile.
“Il recupero dall’infezione acuta da COVID può essere associato a un danno residuo d’organo”, ha affermato Donna M. Mancini, professoressa nel dipartimento di cardiologia presso la Icahn School of Medicine del Mount Sinai e autrice principale dello studio. “Molti di questi pazienti hanno riferito mancanza di respiro e il test da sforzo cardiopolmonare viene spesso utilizzato per determinarne la causa sottostante. I risultati del test da sforzo cardiopolmonare dimostrano diverse anomalie, tra cui ridotta capacità di esercizio, eccessiva risposta ventilatoria e schemi respiratori anomali, che avrebbero un impatto sulle loro normali attività quotidiane”.
Prima dell’esercizio i pazienti sono stati sottoposti a interviste per valutare la presenza di una encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica. È stato chiesto loro di stimare quanto nei sei mesi precedenti la fatica avesse ridotto la loro attività sul lavoro, nella vita personale e/o a scuola; quante volte avevano avuto mal di gola, linfonodi doloranti, mal di testa, dolori muscolari, rigidità articolare, sonno non ristoratore, difficoltà di concentrazione o peggioramento dei sintomi dopo uno sforzo lieve. La sindrome è stata considerata presente se almeno uno dei primi criteri è stato valutato come influenzato in modo sostanziale e almeno quattro sintomi nel secondo criterio sono stati classificati come moderati o maggiori. Quasi la metà (46%) dei pazienti ha soddisfatto questi criteri diagnostici.
Esercizi di respirazione o “riqualificazione
I pazienti, mentre erano collegati a un elettrocardiogramma, a un pulsossimetro e a un bracciale per la pressione sanguigna, erano seduti su una cyclette e usavano un boccaglio monouso per la misurazione dei gas espirati e di altri parametri ventilatori. Dopo un breve periodo di riposo, i pazienti hanno iniziato esercizi con un carico che aumentava di 25 watt ogni tre minuti. Sono stati misurati il consumo di ossigeno di picco (VO2), la produzione di CO2, la velocità di ventilazione e il volume.
Quasi tutti i pazienti (88%) hanno mostrato modelli di respirazione anormali, indicati come respirazione disfunzionale. La respirazione disfunzionale è più comunemente osservata nei pazienti asmatici ed è definita come respirazione rapida e superficiale. I pazienti avevano anche bassi valori di CO2 a riposo e con l’esercizio, suggerendo un’iperventilazione cronica.
Inoltre, la maggior parte dei pazienti (58%) presentava evidenza di compromissione circolatoria al picco delle prestazioni di esercizio sia per una disfunzione cardiaca e/o una perfusione polmonare o periferica anormale.
“Questi risultati suggeriscono che in un sottogruppo di long hauler, l’iperventilazione e/o la respirazione disfunzionale possono essere alla base dei loro sintomi. Questo è importante in quanto queste anomalie possono essere affrontate con esercizi di respirazione o riqualificazione”, ha affermato Mancini.
Ci sono diversi limiti a questo studio. Questo è un piccolo studio osservazionale monocentrico. Potrebbe essersi verificato un errore di selezione quando i ricercatori hanno studiato pazienti con dispnea prevalentemente inspiegabile. Inoltre, sarebbe stata necessaria una correlazione tra i risultati del test cardiopolmonare con tecniche di imaging polmonare e cardiaco.