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Inibitori di pompa protonica e rischio di nefropatia

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Nefrite interstiziale acuta

Gli inibitori di pompa protonica (PPI) sono tra i farmaci più prescritti al mondo. Le loro indicazioni sono principalmente la malattia da reflusso gastroesofageo, la sindrome di Zollinger Ellison, l’ulcera duodenale e il trattamento e la prevenzione delle ulcere gastriche e duodenali associate alla terapia con FANS. Si valuta però che il loro uso sia inappropriato in oltre il 50% dei casi e spesso siano prescritti per semplici dispepsie.

Questo ingiustificato consumo di PPI comporta un consistente aggravio per la spesa pubblica, ma negli ultimi anni sono anche stati osservati importanti effetti avversi di questi farmaci, come l’aumento delle fratture, un aumento delle infezioni da Clostridium Difficile, un incremento di incidenza delle polmoniti ospedaliere e delle nefriti interstiziali.

Quest’ultimo effetto collaterale è stato ben documentato in differenti sperimentazioni, ma poco si sapeva sul potenziale rischio di nefropatia cronica e della sua progressione.

A chiarire questo dubbio è arrivato uno studio, pubblicato sul Journal of the American Society of Nephrology, che ha confrontato l’incidenza di insufficienza renale cronica in due popolazioni di pazienti, trattate con PPI o con H2-bloccanti. Il primo gruppo era formato da 20.270 pazienti, il secondo da 173.321 pazienti.

Gli end point principali dello studio sono stati un eGFR <60 ml/min per 1,73 m2 e una nefropatia cronica, definita dal riscontro in due occasioni, ad almeno 90 giorni di distanza, di una eGFR <60 ml/min per 1,73 m2. La progressione della malattia renale è stata definita come un declino del 30% della eGFR, un raddoppio della creatinina sierica, una malattia renale all’ultimo stadio e una malattia renale all’ultimo stadio o un declino del 50% della eGFR. I pazienti sono stati valutati in un follow-up di 5 anni.

I risultati sono piuttosto allarmanti.

L’incidenza di una riduzione della eGFR sotto i 60ml/m2 è stata di 5408 casi e di 7241 casi, per 100.000 persone/anno, rispettivamente nel gruppo H2-bloccanti e PPI, con un hazard ratio per quest’ultimo gruppo di 1.22.

Nel corso del follow-up è stata registrata un’incidenza di malattia renale cronica in 2569 pazienti e in 3686 pazienti, per 100.000 persone/anno, rispettivamente nel gruppo H2-bloccanti e PPI, con un hazard ratio per quest’ultimo gruppo di 1.28.

Anche per quanto riguarda la progressione della nefropatia e l’incidenza di malattia renale all’ultimo stadio, sono stati registrati più casi nel gruppo trattato con PPI.

Lo studio fornisce un altro dato interessante.: la probabilità di sviluppare gli end point considerati aumentava al crescere della durata dell’esposizione ai PPI.

Non sono state sviluppate analisi su specifiche molecole e neppure considerati i differenti dosaggi cui i pazienti venivano esposti, ma i risultati ottenuti sembrano lasciare pochi dubbi sui potenziali effetti nefrotossici dei PPI.

Questo studio potrebbe fornire un elemento in più su cui riflettere prima di prescrivere questi farmaci , in particolare nei pazienti in cui le indicazioni al trattamento siano quantomeno incerte.

 

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Xie Yan, et al. Proton Pump Inhibitors and Risk of Incident CKD and Progression to ESRD. J Am Soc Nephrol 2016;27:3153–3163.

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