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Il rischio cardiovascolare legato al fumo persiste per 20-30 anni dopo la cessazione

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Il fatto che il fumo faccia aumentare considerevolmente il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari è cosa ben nota. Non servono certamente altre conferme a questo riguardo.

Un recente studio, condotto da un gruppo di ricercatori nordamericani, e pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology, sembra però portare altri interessanti particolari sulla relazione tra fumo e malattie cardiovascolari.

In particolare, gli autori di questo nuovo studio si focalizzano sull’incidenza dell’arteriopatia periferica, analizzando in dettaglio per quanto tempo si protraggono gli effetti negativi del fumo sullo sviluppo di una malattia aterosclerotica.

Solitamente si consideravano necessari circa 15 anni dall’abolizione del fumo prima che il rischio cardiovascolare di un fumatore si riavvicinasse a quello di un non fumatore. Ma è proprio così?

Fumo e malattie cardiovascolari: lo studio

Questa nuova ricerca ha valutato in modo completo l’associazione a lungo termine del fumo di sigaretta, e della sua cessazione, con l’incidenza di tre principali malattie aterosclerotiche: l’arteriopatia periferica, la malattia coronarica e l’ictus.

Per fare questo sono stati utilizzati i dati raccolti nello studio ARIC (Atherosclerosis Risk In Communities), una ricerca che aveva incluso oltre 13.000 soggetti (età 45-64 anni). Nessuno di loro presentava, alla data della visita basale, malattie cardiovascolari in atto. Il follow-up mediano è stato di 26 anni.

Effetti deleteri che durano a lungo

Tra i partecipanti allo studio sono stati registrati 492 casi di arteriopatia periferica, 1.798 casi di cardiopatia coronarica e 1.106 ictus. Grazie a questi eventi i ricercatori hanno identificato una precisa relazione dose-risposta tra numero di sigarette fumate ed eventi clinici.

Anche se i casi di arteriopatia periferica sono stati minori, i risultati più consistenti sono emersi proprio per questa patologia. Rispetto ai non fumatori, i soggetti che fumavano 40 o più pacchetti di sigarette all’anno avevano un rischio quadruplo di sviluppare un’arteriopatia periferica.

Il rapporto di rischio per la malattia coronarica è risultato 2,1, mentre per l’ictus si è attestato a 1,8.

Valutando i sottogruppi, è stata rilevata una più forte, inattesa, associazione, tra numero di sigarette fumate ogni anno e arteriopatia periferica tra i pazienti senza diabete rispetto a quelli con diabete.

Per quanto riguarda la cardiopatia coronarica, l’associazione è risultata più forte tra i partecipanti più giovani (≤55 anni), le donne e nei soggetti senza diabete.

Come atteso, ad un periodo più lungo di cessazione del fumo è corrisposto un rischio inferiore di sviluppare le malattie aterosclerotiche considerate nell’analisi. È stata rilevata una riduzione del rischio entro 5 anni dalla cessazione.

Un periodo più lungo di cessazione del fumo era ovviamente correlato ad una ulteriore riduzione del rischio di sviluppare malattie cardiovascolari aterosclerotiche. Un rischio significativamente elevato per l’arteriopatia periferica persisteva però fino a 30 anni dopo la cessazione del fumo. Per una riduzione del rischio di sviluppare una cardiopatia coronarica sono risultati necessari fino a 20 anni.

Un focus sull’arteriopatia periferica

Come atteso, tutte le variabili correlate al fumo hanno mostrato associazioni significative con le malattie aterosclerotiche considerate, ma quelle con l’arteriopatia periferica sono risultate particolarmente marcate.

Un altro risultato interessante di questo studio è la consistente persistenza degli effetti deleteri del fumo anche dopo la sua abolizione. Un rischio che persiste per decine di anni.

Sono tutti risultati che dovrebbero spingere ad ulteriori interventi nei confronti della cessazione del fumo, focalizzando tutti ambiti clinici in cui si esercitano i suoi effetti dannosi sulla salute.

 

Franco Folino

 

Ning Ding, et al. Cigarette Smoking, Smoking Cessation, and Long-Term Risk of 3 Major Atherosclerotic Diseases. J Am Coll Cardiol 2019; 74: 498–507.

 

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