Home Aritmologia Scompenso cardiaco e fibrillazione atriale: meglio l’ablazione o la terapia medica?

Scompenso cardiaco e fibrillazione atriale: meglio l’ablazione o la terapia medica?

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Catatere da ablazione. Courtesy Biotronik

Risponde a questa domanda un recente lavoro, apparso in questi giorni sul New England Journal of Medicine, che ha valutato 363 pazienti con fibrillazione atriale persistente o parossistica, scompenso cardiaco (Classe NYHA II, III o IV) e una frazione di eiezione minore o uguale al 35%. Inoltre, per essere inclusi i pazienti dovevano aver manifestato un’assenza di risposta ai farmaci antiaritmici, effetti collaterali intollerabili o un o una riluttanza all’assunzione dei farmaci. Tutti i pazienti avevano ricevuto un impianto di defibrillatore monocamerale o biventricolare, con funzioni di monitoraggio remoto.

Hanno partecipato allo studio 33 centri, distribuiti tra Europa, Australia e Stati Uniti.

I pazienti sono stati randomizzati, in aperto, a ricevere una terapia medica o ad essere sottoposti a una ablazione transcatetere. La terapia medica prevedeva il tentativo di mantenere il ritmo sinusale o di mantenere una frequenza cardiaca tra i 60 e gli 80bpm a riposo (o 90-115bpm durante esercizio moderato). Lo scopo della procedura di ablazione era l’isolamento di tutte le vene polmonari e il ripristino del ritmo sinusale. Nel  corso della procedura, altre linee di lesione potevano essere prodotte a discrezione degli operatori.

L’endpoint principale dello studio, un composito di morte per qualsiasi causa o una ospedalizzazione per scompenso cardiaco non pianificata, e si è verificato con frequenza significativamente inferiore nel gruppo di pazienti trattato con ablazione transcatetere (28,5% versus 44,6%).

La stima sulla frequenza dell’endpoint, dedotta dalla curva di Kaplan-Meier, proiettata a 60 mesi, è risultata del 38% nel gruppo sottoposto ad ablazione e del 55% nel gruppo in terapia medica.

Sempre osservando le curve di Kaplan-Meier si nota come i benefici a favore dell’ablazione si manifestino, sia per l’endpoint composito sia per la sola ospedalizzazione, già a un anno di follow-up.

È interessante notare come la procedura di ablazione ha anche indotto a 60 mesi un miglioramento della frazione di eiezione del ventricolo sinistro, facendola aumentare del 7,3% nei pazienti con fibrillazione atriale parossistica e del 10,1% in quelli con fibrillazione atriale persistente.

Dando uno sguardo all’analisi dei sottogruppi, è evidente come il vantaggio della terapia ablativa venga perso in pazienti con una frazione di eiezione inferiore al 25%, in pazienti diabetici e in pazienti che avevano subito l’impianto di un defibrillatore in prevenzione secondaria.

Dai risultati emerge inoltre come le procedure di ablazione si siano limitate all’isolamento delle vene polmonari nella grande maggioranza dei pazienti, e solo nel 5% dei casi siano state realizzate lesioni lineari accessorie. Nel 24% dei casi l’ablazione è stata ripetuta in una seduta successiva, a un intervallo medio di 427 giorni.

Per quanto riguarda il mantenimento del ritmo sinusale, dai dati derivati dai dispositivi impiantati è emerso che a 60 mesi questo era presente nel 63,1% dei pazienti sottoposti ad ablazione e nel 21,7% di quelli trattati con terapia medica.

Questo studio, che ha la sua più importante limitazione nell’essere stato progettato con un disegno in aperto, fornisce peraltro risultati molto chiari: l’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale è superiore alla terapia medica nel prevenire decessi e ospedalizzazioni.

Due soli punti vanno però sottolineati. Innanzitutto, la scelta di sottoporre i pazienti al solo isolamento delle vene polmonari, significa aver selezionato un ben preciso gruppo di pazienti, nei quali il trigger della fibrillazione atriale era stato identificato nell’attività aritmica focale proveniente da quella specifica area. Probabilmente ben altra cosa sarebbe stato considerare anche ablazioni lineari dell’atrio. Sia in termini di successo dell’intervento, sia per quanto riguarda i risultati clinici.

Inoltre, è evidente dall’analisi dei sottogruppi che i pazienti maggiormente compromessi non beneficiano della terapia ablativa, come ad evidenziare che al di sotto di un livello minimo, non è più possibile recuperare quella funzionalità ventricolare che contribuisce a determinare la prognosi del malato.

 

Franco Folino

 

Nassir F. Marrouche, et al. Catheter Ablation for Atrial Fibrillation with Heart Failure. N Engl J Med 2018;378:417-27.

 

 

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