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Identificati i fattori più frequentemente associati a un test positivo per COVID-19

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Immagine del coronavirus
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L’età avanzata, il sesso maschile, la privazione, il vivere in un’area densamente popolata, l’etnia, l’obesità e la malattia renale cronica sono associati a una maggior probabilità di avere un test positivo per COVID-19. Sono questi in sintesi i risultati di una ricerca condotta su 3.802 persone testate per SARS-CoV-2 nel Regno Unito.

Lo studio, osservazionale, è stato condotto tra il 28 gennaio e il 4 aprile, utilizzando i dati delle cartelle cliniche elettroniche dei medici di famiglia, ed è stato pubblicato sulla rivista The Lancet Infectious Diseases.

I fattori associati a un test positivo per COVID-19: chi sono le persone maggiormente a rischio?

L’autore dello studio, il professor Simon de Lusignan dell’Università di Oxford e il direttore del Royal College of GPs Surveillance Centre, Regno Unito, afferma: “Mentre dai dati ospedalieri sono emerse chiare tendenze per le persone con sintomi gravi, il rischio di infezione tra la popolazione generale rimane una zona grigia. È importante sapere quali gruppi nella più ampia comunità sono maggiormente a rischio di infezione in modo da poter comprendere meglio la trasmissione di SARS-CoV-2 e come prevenire nuovi casi”.

Gli autori osservano che anche altri fattori socioeconomici, che non sono stati misurati in questo studio, possono essere collegati all’infezione da SARS-CoV-2, come l’impiego in lavori ad alto rischio, istruzione, reddito e differenze nell’accesso all’assistenza sanitaria e ai test tra i gruppi etnici. Saranno necessarie ulteriori ricerche per comprendere queste associazioni.

Studi ospedalieri hanno riportato che l’essere più anziani, di sesso maschile e con patologie di base come ipertensione e diabete, sono associati ad avere complicanze più gravi di COVID-19. La nuova analisi identifica che alcuni di questi fattori sono associati anche a un test positivo per SARS-CoV-2.

Tuttavia, restano alcune differenze importanti. Ad esempio, la maggior parte delle condizioni di salute sottostanti non ha aumentato in modo significativo la suscettibilità alle infezioni e l’analisi ha trovato un legame tra fumo e bassa probabilità di un risultato positivo del test. Gli autori ritengono che ciò sia dovuto a fattori confondenti, piuttosto che a un reale effetto protettivo, e avvertono che il risultato non dovrebbe incoraggiare le persone a fumare.

I fattori associati a un test positivo per COVID-19: il fumo non protegge dall’infezione

Il professor de Lusignan afferma: “Questo risultato non indica che il fumo protegge dalle infezioni e ci sono molte potenziali spiegazioni alternative – ad esempio il fumo può ridurre la sensibilità del test SARS-CoV-2 o le persone che fumano hanno maggiori probabilità di avere tosse, quindi è più probabile che vengano testate nonostante non abbiano il virus. Oltre ai danni ben documentati per la salute generale del fumo, esiste la possibilità che il fumo aumenti la gravità della malattia COVID-19, quindi i nostri risultati non dovrebbero essere usati per concludere che il fumo previene l’infezione da SARS-CoV-2, oppure per incoraggiare il fumo.”

I fattori associati a un test positivo per COVID-19: età, genere ed etnia

Gli autori hanno analizzato i dati di 587 persone con risultati positivi e 3.215 con risultati negativi, raccolti dalle cartelle elettroniche dei medici di famiglia che fanno parte della rete di cure primarie del Royal College of General Practitioners Research and Surveillance Center.

Tra gli adulti, quelli di età compresa tra 40 e 64 anni erano maggiormente a rischio di test positivi per SARS-CoV-2 (il 18,5% è risultato positivo, 243 su 1.316 persone), rispetto ai bambini di età fino a 17 anni (4,6%, 23 di 499). Tra i 1.612 uomini, il 18,4% è risultato positivo, rispetto al 13,3% delle donne.

Rispetto alle persone di etnia bianca, di cui il 15,5% è risultato positivo, la percentuale di persone di etnia nera che risultava positiva era molto più alta, al 62,1%. Questa scoperta è rimasta significativa dopo essere stata aggiustata per comorbidità come ipertensione e diabete, la cui prevalenza è aumentata nei gruppi etnici neri.

Gli autori affermano che questi risultati dovrebbero essere interpretati con cautela, poiché nello studio c’era un piccolo numero di persone appartenenti a gruppi etnici minoritari.

I fattori associati a un test positivo per COVID-19: meglio vivere in aree rurali

C’era una grande differenza tra le persone che vivevano nelle aree più e meno svantaggiate. Di 668 persone che vivevano nelle aree più svantaggiate, il 29,5% è risultato positivo, rispetto al 7,7% di quelle che vivevano in aree meno svantaggiate.

Le persone che vivevano nelle aree urbane erano più a rischio rispetto a quelle residenti in aree rurali. Delle 1.816 persone testate nelle aree urbane, il 26,2% è risultato positivo, mentre nelle aree rurali è risultato positivo il 5,6%.

Le uniche condizioni cliniche significativamente associate a un test positivo erano la malattia renale cronica e l’obesità. Di 207 persone con malattia renale cronica, il 32,9% è risultato positivo, rispetto al 14,4% registrato nelle persone senza malattia renale. Il 20,9% delle persone obese è risultato positivo, rispetto al 13,2% delle persone di peso normale.

Il co-autore Dr Gayatri Amirthalingam, di Public Health England, afferma: “Ogni giorno che passa la nostra conoscenza di COVID-19 migliora. Questa analisi dei risultati delle cure primarie di soggetti positivi ai virus è un contributo importante alla nostra più ampia comprensione di come COVID-19 sta colpendo persone di diversi gruppi demografici.

Questo studio, che utilizza i dati dell’Oxford RCGP Research and Surveillance Center, fornirà informazioni anche alla revisione del Public Health England “Review into Factors Impacting Health Outcomes from COVID-19 “, che dovrebbe essere completata entro la fine di maggio. Questa revisione analizzerà anche i ricoveri e la mortalità, inclusa la mortalità in eccesso, per fornire ulteriori informazioni su come COVID-19 possa avere un impatto sproporzionato su diversi gruppi. Determinerà anche l’impatto dell’occupazione (compresi gli operatori sanitari) laddove sono disponibili dati.”

 

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