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Medici in un'ospedale di Aleppo/Wikimedia Commons

Una delle più influenti riviste mediche, The New England Journal of Medicine ha pubblicato recentemente un articolo che non riguarda argomenti di medicina scientifica ma che ci rammenta quell’umanesimo non letterario ma antropologico che è integrale alle professioni sanitarie, un aspetto che fortunatamente quel giornale ricorda spesso. E’ l’accorata narrazione degli incubi di un medico volontario in un ospedale siriano che mette in luce uno dei requisiti fondamentali delle professioni sanitarie che, oltre alla conoscenza scientifica e alla capacità tecnica, è anche e soprattutto responsabilità professionale.

Forse nulla di nuovo: medici e paramedici sono consapevoli tutti di questo dovere, ma la forza di questo racconto lo ripropone drammaticamente. Vi sono descritti gli orrori delle ferite, delle malattie, della malnutrizione, della morte senza dignità nel pronto soccorso sovraffollato, il dolore di madri e padri di fronte alle sofferenze dei figli. In così tanta follia risaltano la responsabilità e la dedizione, o meglio, l’eroismo di medici e paramedici siriani che non sono fuggiti, ma da 5 anni lavorano a rischio della vita in condizioni ambientali assurde per curare gli sventurati colpiti dai bombardamenti indiscriminati, dalle armi chimiche e dalle torture ed assistere i loro cari.

Quasi nessuno in Italia ha fortunatamente vissuto esperienze simili nella vita professionale e forse non le vivrà e a nessuno viene chiesto l’eroismo, ma c’è da riflettere sull’insegnamento che medici ed infermieri siriani offrono alla nostra pratica clinica quotidiana. Quei professionisti si pongono domande che non sempre qui ci sappiamo porre con la consapevolezza profondità e responsabilità che richiedono. Come rispondere alla domanda di un adolescente paralizzato dal collo in giù al quale una scheggia di bomba ha tagliato trasversalmente il midollo se potrà nuovamente camminare. Si sanno trovare le parole giuste, si dedica tutto il tempo necessario per dare risposte ad un paziente in simili condizioni ed ai suoi cari? Certo i professionisti della salute sono assillati dalla mancanza di tempo, il dio mitologico Chronos divora i suoi figli, ma affrontare le sofferenze in tutti gli aspetti è l’essenza della professione!

Certe assunzioni di responsabilità che vengono descritte sono angoscianti: con due pazienti feriti gravemente e con sangue a disposizione sufficiente per salvarne uno, quei medici devono decidere quale salvare e quale guardare morire. E cosa dire alla famiglia del bambino lasciato morire sapendo che avrebbero potuto salvarlo? E qui, molto meno drammaticamente, con quanta attenzione e compassione per i pazienti si decide la priorità di accesso alle cure nel pronto soccorso quando viene loro attribuito un codice colorato?

Gli esempi sono numerosi e sarebbe desiderabile che ogni medico leggesse questo articolo perché possa rinnovare il suo giuramento. Soprattutto in questo periodo di migrazioni epocali in Europa sovviene il ricordo del razzismo ottocentesco ai tempi della guerra civile americana che coinvolse anche la professione medica. Allora dei medici degli Stati Confederati del sud definirono una nuova entità nosologica, la drapetomania, quella “malattia che spinge gli schiavi a fuggire“. Speriamo che con la xenofobia così dilagante non si giunga a qualcosa di simile nei confronti dei popoli di oggi che fuggono dalle guerre e dalla fame, nel confronto dei quali abbiamo le stesse responsabilità dei medici siriani.

 

Marcello Lotti

 

Attar S. The Hell of Syria’s Field Hospitals. NEJM 2016;374: 2205-2206. LIBERO ACCESSO

 

 

 

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