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Confermata l’efficacia dei defibrillatori impiantabili nei pazienti con sindrome di Brugada

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ECGPedia/Wikimedia commons

E’ una scelta molto difficile, quella di impiantare un defibrillatore in pazienti con sindrome di Brugada. Prima di tutto perché non è sempre facile arrivare a una diagnosi certa. Anche la stratificazione del rischio nel singolo paziente è piuttosto complicata ed è spesso difficile inquadrare con precisione il vero livello di rischio per la morte improvvisa. Infine, anche la stessa utilità del defibrillatore impiantabile (ICD) ha avuto riscontri a volte contrastanti. Probabilmente perché le casistiche non sono molto numerose, gli eventi, fortunatamente, molto rari e le indicazioni all’impianto non omogenee.

Va comunque considerato che ad oggi solo l’ICD ha comunque dimostrato una certa efficacia nella prevenzione della morte improvvisa in questi pazienti.

Ad aiutarci a fare chiarezza sull’argomento, arriva ora un interessante lavoro pubblicato dai fratelli Brugada. La ricerca ha valutato l’efficacia degli ICD in una vasta popolazione di soggetti con sindrome di Brugada, seguiti nel corso di un follow-up prolungato. La casistica di base è stata formata da 370 pazienti con diagnosi di malattia. In 104 di questi è stato impiantato un ICD.

Una storia familiare di sindrome di Brugada era presente nell’84% dei casi, episodi di morte improvvisa nel 34% dei pazienti. Un ECG con il classico aspetto di malattia presente spontaneamente, era stato evidenziato nel 62% dei pazienti, quello diagnostico con test farmacologico per il blocco dei canali del sodio, in un restante 37% dei casi. Un test genetico è stato effettuato nel 64% dei pazienti, ed è risultato positivo per mutazioni patogene sul gene SCN5A nel 23% dei pazienti.

I motivi che hanno portato più frequentemente all’indicazione per l’impianto di ICD, nei pazienti asintomatici, sono stati un’aritmia ventricolare inducibile nel corso di uno studio elettrofisiologico (78%) o una storia familiare di morte improvvisa (11%). Nel 10% dei casi l’ICD è stato impiantato in prevenzione secondaria, nel 90% dei casi in prevenzione primaria.

Nel corso di un follow-up medio di circa nove anni, 21 pazienti (20,2%) hanno ricevuto complessivamente 81 shock appropriati. Il tempo medio dall’impianto al primo shock è stato di 49 mesi.  Considerando i pazienti asintomatici, il 9% di questi ha ricevuto uno shock appropriato nel corso del follow-up.

E’ interessante osservare come nelle fasi finali del follow-up, dopo circa 15 anni dall’impianto, il numero di soggetti trattati in prevenzione primaria, asintomatici o con episodi sincopali, avevano sommato un numero simile di shock appropriati.

Non sono però mancate le complicazioni. L’incidenza di shock inappropriati è stata dello 0,9 per 100 persone/anno e sono stati dovuti prevalentemente a episodi di fibrillazione atriale. Nel 20% dei pazienti sono state registrate altre complicazioni, tra cui: infezioni precoci del dispositivo, in un caso con endocardite, e un caso di tamponamento cardiaco.

I dati di questo studio sembrano quindi indicare che l’ICD può essere estremamente efficace nel prevenire episodi aritmici pericolosi per la vita del paziente. Non solo in prevenzione secondaria, dove sono stati registrati un numero maggiore di interventi del dispositivo, ma anche in prevenzione primaria, valutando la probabilità di sviluppare aritmie pericolose anche a distanza di diversi anni dall’impianto.

D’altra parte vanno anche considerate le possibili complicazioni legate all’impianto stesso dell’ICD, non poche da quanto emerge dai risultati, che possono però essere contenute con un’attenzione particolare all’impianto e al periodico controllo dei dispositivi.

 

Cover image Journal of the American College of Cardiology

 

Jaime Hernandez-Ojeda, et al. Patients With Brugada Syndrome and Implanted Cardioverter-Defibrillators Long-Term Follow-Up. J Am Coll Cardiol 2017;70:1991–2002.

 

 

 

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